All'età di dodici anni provai una nuova
meraviglia di natura completamente diversa; e fu leggendo un libretto sulla
geometria piana euclidea, capitatomi tra le mani al principio dell'anno
scolastico. C'erano delle asserzioni, ad esempio quella che le tre altezze
di un triangolo si intersecano in un sol punto, che - pur non essendo affatto
evidenti - potevano tuttavia esseer dimostrate con tanta certezza da eliminare
qualsiasi dubbio. Questa lucidità e certezza mi fecero un'indescrivibile
impressione. Il fatto che l'assioma dovesse essere accettato senza dimostrazione
non mi dava fastidio. Per me era sufficiente, in ogni caso, poter basare
le dimostrazioni su proposizioni la cui validità non mi sembrava
dubbia. Ricordo, ad esempio, che uno zio mi espose il teorema di Pitagora
prima che il sacro libretto di geometria mi fosse capitato tra le mani.
Con molta fatica riuscii a "dimostrare" il teorema servendomi della similitudine
dei triangoli; e così facendo, mi sembrò "evidente" che il
rapporto fra i lati dei triangoli rettangoli dovesse essere determinato
da un solo angolo acuto. Mi sembrava che ci fosse bisogno di qualche dimostrazione
solo per cose che non apparissero altrettanto "evidenti". Inoltre, mi sembrava
che le cose di cui tratta la geometria non fossero essenzialmente diverse
da quelle che si percepiscono coi sensi, "che si possono vedere e toccare".
Quest'idea rudimentale, probabilmente la stessa che sta alla base della
ben nota problematica kantiana sulla possibilità dei giudizi sintetici
a priori, si fonda ovviamente sul fatto che il rapporto esistente fra i
concetti geometrici e gli oggetti dell'esperienza sensibile (asta rigida,
intervallo finito ecc.) mi era inconsciamente presente.