CRUI - CONFERENZA DEI
RETTORI DELLE UNIVERSITA' ITALIANE
Relazione sullo stato delle Università Italiane
Piero TOSI, Prima Relazione sullo stato delle Università Italiane, Roma,
25.9.2003.
Quando nello
scorso dicembre i Rettori, con un gesto clamoroso, rassegnarono al Ministro le
loro dimissioni, denunciando l'insostenibilità della situazione finanziaria del
sistema universitario italiano, accadde qualcosa di molto importante per tutti
noi: il Paese fu immediatamente colpito e reagì, difendendo la sua Università.
L'opinione pubblica, che è stata così vicina all'Università, deve conoscere ora
il vero stato degli Atenei italiani; il Paese intero, ascoltandoci, deve essere
messo nelle condizioni di giudicare. È per questo che la Conferenza dei Rettori
presenta per la prima volta una relazione sullo stato delle Università
italiane.
È un atto di trasparenza e una richiesta di partecipazione, per analizzare la
vita delle Università in questo ultimo decennio: vogliamo verificare con le
Istituzioni, con i cittadini, con gli studenti e con le loro famiglie,
attraverso i dati essenziali, che cosa le Università fanno; e che cosa sono
chiamate a fare nell'immediato futuro per offrire garanzie alle famiglie e ai
giovani.
PERCHÉ
L'UNIVERSITÀ. In una occasione importante come questa, ci sembra giusto tentare
di rispondere alla domanda delle domande: l'Università perché?
In realtà, interrogarsi sulla funzione dell'Università significa indagare
direttamente la nostra società, il ruolo della conoscenza e il valore del
progresso e dell'elaborazione culturale in un pianeta sempre più globale e
multiculturale. Per capire il ruolo e la funzione dell'Università è necessario
avvicinarsi alla società osservandola attraverso un prisma particolare, che sia
capace di restituirci l'immagine di come il nostro "convivere" è
destinato ad essere. In estrema sintesi, si deve declinare al futuro il
presente della nostra società.
Le giovani generazioni, che la nostra Università qui e ora forma, saranno le
protagoniste della società di domani. Sui muri di Berkeley sta da anni una
frase scritta da un giovane studente, diventata una sorta di epigrafe: "II
futuro mi interessa perché è là che intendo passare i prossimi anni".
Sappiamo che ciò che oggi i nostri giovani studiano e progettano si
concretizzerà solo a distanza di anni. La salda radice dell'insegnamento e
della ricerca darà dei frutti che alimenteranno la vita del futuro:
"nessuno pianta un olivo per coglierne lui stesso i frutti", ci
rammenta Virgilio.
Ma per riflettere sul futuro è utile guardare al passato, traendone qualche
rapida suggestione a da sempre l'Università ha costituito il laboratorio nel
quale si sono formate le classi dirigenti e, allo stesso tempo, è qui che sono
maturati alcuni dei progressi scientifici che hanno migliorato l'esistenza
dell'uomo. Ma l'Università è stata anche il laboratorio nel quale sono state
incubate le ansie di rinnovamento ideologico e culturale che hanno segnato i
mutamenti più radicali e profondi della nostra storia.
Le Università si realizzano, fino dalle loro origini, come "comunità del
sapere", istituite e sostenute perché la società ha bisogno di nuove
conoscenze, di classi dirigenti aggiornate, di cittadini informati, di
competenze tecniche e professionali, di certificazioni e accreditamenti. Queste
sono le loro funzioni essenziali, i contributi specifici che esse devono
fornire in base al contratto non scritto che le lega ai cittadini e allo Stato.
Hanno dunque una responsabilità specifica enorme: quella di garantire e di
promuovere il lavoro intellettuale per la produzione e la trasmissione del
sapere.
Questa responsabilità diventa missione e obiettivo; si traduce in guida allo
sviluppo socio-economico, e ha come riferimento non solo l'orizzonte
internazionale delle varie comunità scientifiche, e quello nazionale dello
sviluppo del Paese, ma anche lo specifico territorio in cui l'Università
insiste. Occorre per questo aggiornare i termini di una nuova alleanza con le
Regioni, con la ridefinizione e la valorizzazione del ruolo dei Comitati
regionali di Coordinamento ai fini della programmazione degli interventi e
della creazione di modelli a rete, e con l'apertura di tavoli di confronto sul
contributo delle Regioni alla vita e al finanziamento delle Università e di
queste alla gestione e al progresso di quelle.
UNA
STAGIONE DI PROFONDI CAMBIAMENTI. L'Università italiana sta oggi vivendo una
stagione di profondi cambiamenti. La sua tradizione è ricca di modelli, che
traggono origine da un unico ceppo. Il nostro paradigma, che è quello
humboldtiano, ha funzionato per secoli, ma è entrato in crisi sotto l'incalzare
di tumultuosi processi, quali lo sviluppo della società e dell'Università di
massa, della globalizzazione e della competizione.
A lungo siamo sopravvissuti danzando pericolosamente sulle crepe di queste
contraddizioni, mentre i nostri Governi, in un clima di generale disattenzione
e senza una precisa consapevolezza strategica, adottavano solo provvedimenti
tampone.
La Conferenza dei Rettori, per la sua funzione e composizione, ha cercato di
intervenire su quanto stava accadendo e, insieme, di comprendere il senso delle
trasformazioni a cui la nostra Istituzione andava soggetta. Abbiamo
probabilmente trascurato, nella prima fase, di portare lo sforzo di
comprensione e dibattito mori dal nostro ambiente: nel tentativo di analizzare
al nostro interno questi fenomeni, non siamo riusciti a far percepire ne ai
Governi ne all'opinione pubblica la portata dei problemi dell'Università.
La discussione è così rimasta confinata nella cerchia di élite culturali, non
favorendo la creazione di un movimento e di un consenso sociale e politico che
sono invece indispensabili per una radicale azione di rinnovamento. Non abbiamo
spiegato a sufficienza che riformare era condizione essenziale per conservare.
Ma in quali direzioni muovere questa opera di rinnovamento, cioè di riscoperta
dei più autentici e votali valori dell'Università? Due aspetti assumono una
portata davvero decisiva.
Fin dall'inizio, la caratteristica più specifica dell'Università è stata quella
di essere una comunità di docenti e di studenti, una comunità educante:
vogliamo far riscoprire il valore di questo peculiare aspetto e molti passi
abbiamo già mosso verso questo obiettivo.
Un'altra caratteristica fondamentale dell'Università è sempre stata - e
continua a stare - nel fatto che ricerca e insegnamento non sono separabili:
dalla loro unità, nei laboratori e nelle aule, nasce la vera educazione, la
formazione delle persone, non semplicemente di portatori di nozioni.
L'Università senza ricerca è pura formazione professionale, mentre con essa
diviene luogo della cultura, casa del metodo critico, dove si rifugge dal
conflitto fra le discipline e si mira all'interdisciplinarietà.
L'UNIVERSITÀ,
SEDE ELETTIVA DELLA RICERCA. Secondo l'unanime assunto del Consiglio d'Europa,
l'investimento in ricerca è il mezzo fondamentale per produrre conoscenza, così
come un'economia fondata sulla conoscenza è essenziale per la competizione. Il
messaggio è chiaro: servono interventi pubblici e privati a sostegno delle
attività di ricerca e sviluppo perché il loro potenziamento è nell'interesse di
tutti e perché l'innovazione che ne deriva produce effetti positivi sull'intera
società.
Se l'Europa investe in ricerca meno del Giappone e degli Stati Uniti, l'Italia
investe molto meno della media europea. In Europa siamo agli ultimi posti e
questo preoccupante dato riguarda sia l'investimento pubblico che quello
privato.
Tuttavia, nonostante il persistere e, anzi, l'aggravarsi di questo scenario,
l'Università italiana mostra una straordinaria, quasi disperata, vitalità. A
testimoniarlo bastano alcuni dati:
- il 50% dei ricercatori lavora nelle Università;
- il 53% dei lavori scientifici proviene dall'Università;
-il 35% dei fondi dell'Unione Europea per la ricerca vanno alle Università.
Inoltre, la nostra efficienza in termini di pubblicazioni ad alto indice di
citazione è, a parità di numero di ricercatori, almeno uguale alla media
europea e statunitense; quella in termini di brevetti è solo di poco inferiore.
Perché questi risultati? Il fatto è che solo nelle Università c'è un giusto equilibrio
tra i diversi saperi, che produce una fertile complessità intellettuale. Solo
nelle Università si realizza l'interazione fra ricerca e insegnamento: per
insegnare modelli culturali nuovi, come quelli che la moderna società e
l'attuale economia richiedono, è necessario poterli e saperli
"creare".
Nel nuovo contesto europeo, specie dopo gli accordi interuniversitari sanciti a
Bologna, il focus sulla ricerca trova un puntuale riferimento. Non è un caso se
il progresso più significativo nell'itinerario di promozione, controllo e
sviluppo di uno spazio comune europeo dell'istruzione superiore si è realizzato
proprio nell'accresciuta e rinnovata attenzione all'addestramento alla ricerca,
cioè al Dottorato di ricerca, oggi finalmente inserito con giusto rilievo nella
struttura dei titoli universitari. Il Dottorato è e continuerà ad essere
un'esclusività universitaria per formare giovani consapevolmente proiettati
nelle dinamiche di accrescimento del sapere. Da quando l'istituzione del
Dottorato di ricerca è divenuta competenza diretta delle Università si è
registrato un incremento del 41% dei dottori; oggi si stanno anzi realizzando
le Scuole di dottorato e crescono di numero i Dottorati europei o che fruiscono
di convenzioni operative con Atenei europei. C'è consapevolezza che il
Dottorato di ricerca non equivale semplicemente all'avvio del giovane alla
carriera universitaria, ma tende alla creazione di una sapienza critica volta
alla crescita culturale e all'inserimento nella ricerca industriale così come in
quella universitaria.
Un altro fondamentale elemento per potenziare ricerca e sviluppo è certamente
costituito dall'interazione fra Università e Industria.
Il sistema industriale, oltre a operare per la internalizzazione della ricerca
e dell'innovazione, deve essere capace di interagire con maggiore solerzia e
fiducia con le Istituzioni di ricerca. Le Università, d'altra parte, devono
riuscire a incidere di più sul mercato delle innovazioni, rendendosi conto che
il trasferimento tecnologico e, comunque, la produzione di risultati della
ricerca utilizzabili dall'Industria equivale al superamento di un test di
efficacia e a uno specifico accreditamento.
Per favorire questa interazione sono essenziali la detassazione dei contributi
dei privati a sostegno della ricerca, la revisione delle norme sulla
brevettazione e il sostegno agli spin-off.
In una recente e articolata pubblicazione dell'associazione TreeLLLe,
presieduta da Umberto Agnelli, si individua proprio nell'Università e nella
ricerca universitaria uno dei motori per una rapida ripresa culturale ed
economica del Paese.
Non è schizofrenia se, mentre invochiamo una maggiore integrazione tra
Università e Impresa, al contempo elogiamo il significato della ricerca di base
e il fatto che essa ha nell'Università la sua casa naturale. La ricerca di base
garantisce lo sviluppo del sapere su cui costruire innovazione e competitività.
Apre orizzonti, fonda le piattaforme per l'acquisizione di conoscenze spesso
non previste, ma sempre creative per lo sviluppo di filoni applicativi. Chi
considera la ricerca di base solo spreco o, peggio, appagamento di futili
curiosità dovrebbe ricordare che la morte e la riproduzione delle cellule del
nostro organismo, studiate "solo" per comprenderle, sono la base
metodologica indispensabile per affrontare malattie come l'Alzheimer e il
cancro. E allora: è futile curiosità? E spreco?
Il sistema della ricerca universitaria ha bisogno di interfacciarsi con le
altre Istituzioni di ricerca, con la comunità scientifica internazionale e con
il mondo delle imprese. Ha bisogno della realizzazione di un'anagrafe della
ricerca nazionale e dell'introduzione di un'adeguata valutazione.
Tutti parlano o scrivono della "fuga dei cervelli". È giusto. Ma
nessuno dice che le Università italiane hanno di recente accolto molti giovani
studiosi italiani - finora all'estero - e stranieri per lavorare da noi: 249
fra il 2001 e l'inizio del 2003, di cui 133 stranieri (fra i quali 18
statunitensi, 17 inglesi, 12 francesi eli tedeschi), molti dei quali provenivano
da posizioni di prestigio. La "fuga" dei cervelli si impedisce
creando una appetibilità del sistema dell'istruzione superiore e della ricerca
complessivamente inteso. Non ci stancheremo mai di ripeterlo: grande attenzione
deve essere riservata ai giovani, facilitando il loro accesso ai fondi di
ricerca e dando loro la certezza che sarà valorizzato solo il merito.
Senza l'apporto dei giovani, l'Università è destinata a morire di asfissia.
LO
STUDENTE AL CENTRO DELLA RIFORMA. Cambia l'Università e cambia il ruolo, in
essa, dello studente, così come cambiano l'ambiente sociale nel quale i giovani
vivono e il loro modo di rapportarsi alle Istituzioni. Nel passato gli studenti
sono stati troppo spesso abbandonati a se stessi, quasi oggetti ai quali
impartire dall'alto un certo numero di lezioni. Consapevoli di ciò, gli Atenei
pongono oggi in primo piano la figura dello studente, che acquista centralità
nella struttura e nell'organizzazione universitaria.
Lo studente potrà scegliere dove studiare, orientandosi tra le offerte
formative dei diversi Atenei, quando avrà assicurato dallo Stato un reale
diritto allo studio, che gli consenta una mobilità legata alle scelte. Mentre
oggi, soprattutto per la carenza delle risorse necessarie a garantire questo
diritto, più dell'80% degli studenti si immatricola nella Regione di residenza.
Il confronto con l'Europa ci vede lontanissimi dalla media nella distribuzione
delle borse di studio e dei posti alloggio per i bisognosi e meritevoli:
- i posti alloggio in Italia sono 1' 1,70% del numero degli studenti;
- in Francia il 7%;
- in Germania il 10%;
- in Danimarca il 20%;
- in Svezia il 17%;
- solo Portogallo e Spagna hanno valori di poco superiori ai nostri.
Eppure in questi ultimi anni si è assistito a una crescita della domanda di
immatricolazioni all'Università, in correlazione con il nuovo quadro
dell'offerta formativa derivante dalla riforma, dopo che negli anni Novanta il
numero degli studenti iscritti si era stabilizzato intorno a 1.700.000 unità. È
decisamente aumentato il numero degli immatricolati calcolato su quello dei
giovani che hanno superato l'esame di maturità, anche se c'è una grave carenza
di scelta per alcuni settori tecnico-scientifici (chimica, fisica, matematica,
ecc.). C'è, dunque, una nuova fiducia dei giovani e delle loro famiglie
nell'Università.
Da questo punto di vista, la riforma ha prodotto, quindi, positivi risultati,
per cui appare inopportuno affrettarsi a "riformare" una riforma
appena varata. Essa, peraltro, ha potuto essere applicata perché i docenti e il
personale tecnico-amministrativo hanno imparato da soli, a loro spese, come
farlo e come tenere in equilibrio, in questa fase delicata, l'Università. Ma è
chiaro che di quella riforma bisogna cogliere il senso più profondo, che è
appunto quello di promuovere e spingere verso l'alto tutte le professionalità,
a ogni livello. La riforma non può essere solo un riassetto delle carte secondo
le esigenze del mercato: deve essere il regno dell'invenzione e della
progettazione del futuro. I contenuti dell'insegnamento nei corsi di studio non
possono basarsi sulla contrapposizione tra quantità e qualità: abbassando la
qualità avremmo un ben magro ed effimero risultato: attenzione, quindi, ad
usare il numero dei laureati ed i tempi delle lauree come unici indici di
qualità. L'innovazione porterà a diversificare l'offerta didattica da Ateneo ad
Ateneo: tutte le offerte dovranno riuscire a legare saperi e creatività,
indispensabili per forgiare donne e uomini europei colti, capaci di continuare
a imparare durante l'arco dell'intera vita; donne e uomini che, sottratti alle
meccaniche leggi del mercato, siano capaci di confrontarsi criticamente con
esso. Il modello è quello di una formazione mista, che superi la querelle tra
scienze antiche e nuove, tra saperi alti e bassi. Non è utopico pensare che
l'uomo del futuro sappia programmare il computer ed anche leggere Kant; che ci
siano manager con un PhD in economia e che abbiano nel loro bagaglio culturale
la genetica o l'antropologia. È appunto un problema di contenuti, che solo
l'autonomia universitaria, saggiamente esercitata, può risolvere.
La riforma della didattica non è ancora compiutamente attuata. Deve essere
sperimentata per poterne giudicare pregi e difetti, per correggerla e renderla
ancora più flessibile, per valutare se ha saputo incidere positivamente sulle
attuali inefficienze, quali l'abbandono degli studi da parte di un
considerevole numero di giovani e i tempi di laurea troppo lunghi: per i tempi
di laurea occorre però sottolineare che essi sono influenzati dal crescente
numero di studenti lavoratori - il 54% degli studenti - i quali si laureano
quattro anni più tardi rispetto a chi non ha fatto esperienze lavorative.
Alcuni significativi risultati sono stati nel frattempo raggiunti:
- dal 1999 al 2002 la percentuale dei laureati sugli immatricolati è salita dal
38% al 52%, cioè gli abbandoni si sono ridotti dal 62% al 48% in 3 anni,
nonostante che non si sia messo in opera alcun nuovo rapporto
Università-Scuola, che consentisse alla Scuola di orientare formando e di
preparare ai diversi corsi di studio universitari in collaborazione con
l'Università;
- il numero dei laureati è aumentato di oltre il 60% rispetto al 1994;
- secondo l'indagine di Alma laurea, a tre anni dal conseguimento della laurea
il 79% dei laureati lavora nel settore di studio e il 14% non cerca lavoro. Da
notare che in questi dati è compresa la laurea in Medicina con una percentuale
di laureati che lavorano, date le specifiche esigenze di specializzazione, solo
del 24%.
Dovremo valutare se la riforma ha indotto a fare chiarezza sugli obiettivi, sui
contenuti e sull'organizzazione dei corsi di laurea. Prima della riforma i
corsi di laurea e di diploma erano 2443, con la riforma sono state attivate
3034 lauree triennali. Gli Atenei riconoscono di averne varati troppi, anche se
non così tanti quanti ci capita di leggere! E li stanno riducendo, in modo da
rendere più trasparente e comprensibile il contenuto dei singoli percorsi
formativi: il contratto formativo con i giovani e con le loro famiglie, così
come il dialogo con le Parti sociali, deve essere impostato sul presupposto
della massima chiarezza. Infatti, l'altra faccia della riforma universitaria è
la necessità di disegnare in modo organico il ruolo e la posizione dei
professionisti: le professioni costituiscono uno degli sbocchi più importanti
cui sono destinati i giovani che le Università formano. Il legame tra i due
momenti è essenziale: la ridefìnizione dei meccanismi degli accessi ed il loro
adattamento ai nuovi titoli non può non accompagnarsi alla revisione degli
aspetti ordinamentali delle professioni. Curricula e inquadramento
professionale vanno inevitabilmente di pari passo.
Se l'obiettivo è quello di rendere centrale l'apprendimento, professori e
studenti sono chiamati a ripensare il loro modo, rispettivamente, di insegnare
e di imparare.
L'obiettivo è un'educazione che formi oltre le nozioni e che si proietti nella
realtà sociale. Eviteremo così che le Università diventino grandi magazzini
della conoscenza (le "multiversità"di Clark Kerr), magari con angoli
delle occasioni o boutique di lusso, come ha sottolineato polemicamente Ralf
Dahrendorf, ove la comunità accademica sarebbe frantumata in gruppi corporativi
e si trasformerebbe in una holding di centri di consulenza. Così anche alla
giusta domanda di formazione permanente e ricorrente, e di formazione a
distanza, occorre che risponda l'Università, che affianca insegnamento e
ricerca, creazione di competenze specifiche e capacità di muoversi nel più
vasto mondo della produzione e della cultura. È fondamentale per tutto questo
un nuovo modo di insegnare, una più intensa interazione fra docenti e studenti,
un tutoraggio critico e aperto: gioca un ruolo dirimente la disponibilità dei
docenti verso le nuove forme dell'insegnamento, ma anche il loro numero, che
deve garantire un efficace rapporto studenti/docenti. Nel nostro Paese tale
rapporto è il più sfavorevole d'Europa: in Italia infatti c'è 1 docente ogni
32-24 studenti (a seconda che si includano o meno i fuori corso) contro i 17
studenti nel Regno Unito, i 18 in Francia, gli 11 in Germania e i 17 in Spagna.
C'è però un aspetto della vita universitaria che con coraggio va affrontato: un
aspetto che riguarda direttamente "noi". Talvolta i professori
infatti oscillano ancora oggi tra il sentimento dell'assoluta indipendenza e
quello della frustrazione o, peggio ancora, del lamento. Non emerge ancora con
sufficiente forza la consapevolezza che il professore non è il centro ma una
parte del sistema, il quale funziona meglio se tutte le componenti concorrono
al buon andamento del meccanismo generale dell'Istituzione.
Alcuni, invece, preferiscono ancora considerarsi parte di un sistema tolemaico,
all'interno del quale i vari pianeti (studenti, lezioni, corsi ecc.) ruotano
intorno a loro, piuttosto che - come in un moderno sistema galileiano -
sentirsi parte di una organizzazione che ha altrove il suo fulcro. E la
percezione che ha di sé ciascun professore universitario - il suo essere in un
modo o nell'altro - non costituisce per nulla un affare privato, ma ha enormi
ripercussioni, positive o negative, sull'efficacia del suo insegnamento. Diceva
lo storico Jean Jaurès: "Non si insegna quello che si vuole; dirò
addirittura che non si insegna quello che si sa o si crede di sapere; si
insegna e si può insegnare quello che si è". Non si può non riconoscere,
tuttavia, che si tratta di una mentalità e di una cultura ormai al tramonto,
come dimostra l'impegno nella interpretazione e nella difficile realizzazione
della riforma della didattica: non dobbiamo dimenticare, peraltro, la necessità
di non distrarre i docenti dai compiti istituzionali.
LO
SPAZIO COMUNE EUROPEO DEL SAPERE. L'orizzonte europeo è quello a cui guardare
con maggiore interesse, rivendicando con orgoglio il ruolo avuto dagli Atenei
italiani nel processo di armonizzazione del modello degli studi: non a caso,
tale processo prese avvio nella ormai storica dichiarazione di Bologna.
L'Italia ha dimostrato, fino a questo momento, di avere onorato i propri
impegni internazionali e il ruolo che allora si assunse. La recentissima
dichiarazione di Berlino ribadisce e conferma quella scelta, della quale viene
riconosciuto l'alto valore sociale. Viene, in particolare, confermata la
necessità che il sistema educativo dei diversi Paesi sia articolato su due
cicli principali e su un terzo ciclo di approfondimento, che è il Dottorato di
ricerca; che i modelli degli studi siano basati su titoli non standardizzati ma
comparabili e compatibili; infine, che i titoli siano descritti in termini di
carico didattico, di risultati conoscitivi, di competenze e profili, tenendo
conto delle necessità del mondo del lavoro e della società.
I Rettori europei hanno di recente ribadito il convincimento che si debba
procedere con sempre maggiore lena verso la realizzazione di uno Spazio comune
della formazione superiore, nel quale l'unione delle nostre diversità e delle
nostre culture contribuisca alla creazione di un sistema integrato, in cui si
attui la mobilità di studenti e docenti grazie alla compatibilità dei modelli.
Se è vero che sarà necessario ancora del tempo per raggiungere una politica
europea, lo Spazio comune dell'Alta formazione e della Ricerca - l'Europa delle
Università - sarà la strada più certa per creare i cittadini europei. Le
Università sono impegnate a raggiungere questo obiettivo, per rispondere al
ripetuto appello del Presidente della Repubblica, Carlo Azelio Ciampi, di
contribuire alla affermazione della realtà europea, un evento che segna una
nuova era per tutte le Università del vecchio continente.
UN
SISTEMA DI AUTONOMIE. Chiunque intenda riflettere sulla- missione formativa
dell'Università finirà inevitabilmente per accorgersi che questo significa
riflettere sulla sua autonomia: negli aspetti gestionali, didattici e
organizzativi.
L'autonomia universitaria, considerata, nel disegno della Costituente, una
delle autonomie nelle quali la Repubblica si sarebbe articolata, è una preziosa
conquista sul piano dei principi e lo è ancora di più perché offre ad ogni
Ateneo la possibilità di esprimersi in azioni coerenti con la propria
tradizione e con la propria identità, con le proprie originali vocazioni
scientifiche e con le diverse interazioni territoriali che inducono idee
diverse di sviluppo.
In una prima fase, l'autonomia universitaria ha significato soprattutto la
erosione delle regole del centralismo amministrativo, poi l'autonomia è stata
sperimentata ampiamente, come un autogoverno responsabile; deve ancora
recuperare, ora che si è fatta adulta, più alti ambiti di libertà e di responsabilità.
Così daremo pieno merito a quei nostri colleghi di ieri che l'autonomia l'hanno
conquistata per poi affidarla a noi.
È da condividere in pieno, sia nella forma che nel contenuto, il documento con
il quale recentemente gli uomini di cultura, che costituiscono un gruppo
permanente da noi insediato proprio per aiutarci a riflettere sulle grandi
questioni che riguardano l'Università italiana, si ergono a difensori del
nostro bene più prezioso che è, appunto, l'autonomia.
E ribadisco con loro che per la CRUI autonomia non significa libertà
incondizionata o cancellazione del senso di appartenenza alla dimensione
sociale, politica e istituzionale del Paese, ma chiarezza delle regole e
responsabilità delle proprie determinazioni.
Nel più avanzato modello di autonomia che stiamo conquistando, il centro del
sistema stabilisce regole chiare e le fa rispettare, assicurando la trasparenza
come un autorevole e credibile interlocutore, che è interprete delle istanze
del mondo universitario di fronte a tutti e in tutte le sedi. Fissa obiettivi
condivisi, determinando conseguentemente comportamenti certi e coerenti con
essi. Il monitoraggio delle prestazioni universitarie, la valutazione,
l'incentivazione dei comportamenti virtuosi sono utili strumenti per modificare
in meglio gli Atenei. Le Università sono lasciate pienamente libere di
stabilire le proprie strategie di sviluppo sia per quanto concerne i contenuti
(autonomia sostantiva) sia per quanto concerne i mezzi con i quali tali
attività vengono perseguite (autonomia procedurale). La responsabilità del
governo degli Atenei dovrà pienamente emergere anche attraverso la eventuale
revisione delle norme statutarie.
I percorsi, che derivano dai diversi ruoli del MIUR e delle Università, debbono
essere improntati al dialogo, evitando gli improvvisi decisionismi che lo fanno
cadere.
Il dialogo deve diventare non scelta occasionale o regola di convenienza, ma
metodo di costante impostazione dell'azione politica. Ciò è richiesto non solo
dalla necessità di evitare l'impressione che vi siano sedi nelle quali
l'elaborazione delle sorti dell'Università italiana avviene senza il concorso
dei suoi protagonisti, ma anche dall'autonomia delle Università garantita dalla
Costituzione. A questo principio devono essere ispirati tutti i disegni di
riordino del sistema universitario, che devono rispettare, da un lato, la
pluralità degli aspetti - organizzativi, didattici, scientifici - che il mondo
universitario per sua natura involge; dall'altro, la necessità di riconoscere
all'autonomia universitaria una sede rappresentativa che sia essa stessa
autonoma rispetto all'organo politico.
Abbiamo accolto con favore gli annunci del MIUR relativi alla rinnovata
geometria degli organi di governo centrale, anche se al momento non sono state
avanzate concrete proposte, che attendiamo, sicuri che sulle stesse linee guida
si possa avviare un proficuo dialogo. Dovrebbe cessare l'uso delle proroghe, al
posto di una chiara sistematizzazione, per il Consiglio Universitario
Nazionale, al quale il mondo universitario deve gratitudine per il prezioso
lavoro nel momento del varo della riforma e a cavallo di due legislature.
Questo periodo deve servire alla riprogettazione secondo una logica che non può
non tener conto del mutato contesto nel quale la sua opera dovrà inserirsi e
delle concorrenti istanze di valutazione e controllo finanziario, che
necessitano di una razionalità di percorsi decisionali.
Per quanto riguarda la Conferenza dei Rettori delle Università Italiane, essa è
convinta di rappresentare l'intero sistema delle autonomie universitarie nei
loro aspetti organizzativi, operativi, finanziari, gestionali e istituzionali,
e quindi la sede naturale e necessaria della concertazione su tutto ciò che
riguarda l'Università. Ci attendiamo questo sempre maggiore riconoscimento dal
Governo, in conformità, peraltro, agli indirizzi che vogliono valorizzato il
ruolo delle autonomie e il principio di sussidiartela.
DOCENTI,
STATO GIURIDICO E CONCORSI. Sono giorni nei quali si torna con insistenza a
parlare dello stato giuridico dei docenti e dei concorsi universitari. Per
quanto concerne lo stato giuridico, la Conferenza dei Rettori è d'accordo con
il MIUR nel riconoscere la necessità che esso debba essere regolamentato da una
legge dello Stato, garantendo agli Atenei la necessaria libertà di integrare il
rapporto con i docenti tramite specifici accordi. Questa legge è una grande
necessità ed un importante passo per aumentare le opportunità di qualificazione
del sistema universitario. Tuttavia, essa non può anticipare la soluzione del
problema del finanziamento delle Università, in un quadro organico di riforme.
È persino inutile riaffermare che il valore primario della libertà della
scienza e del suo libero insegnamento deve essere tutelato dalla legge. La
libertà di insegnamento deve trovare però il suo giusto sviluppo nella
programmazione didattica dei corsi di studio - elaborata collegialmente e
impegnativa per tutti - così come incontrare i propri limiti nella necessaria
coerenza con gli obiettivi formativi dei corsi stessi e nell'equilibrio interno
tra le singole discipline. Alla libertà di insegnamento, intesa come diritto
fondamentale, sono inscindibilmente connessi i doveri dei docenti universitari,
che sono quelli di svolgere attività didattica, di orientamento, di tutorato e,
in generale, di supporto agli studenti secondo le regole specifiche stabilite
dagli Atenei e dai relativi corsi di studio; di svolgere in modo continuativo
attività di ricerca scientifica, sottoposta a valutazioni periodiche; di partecipare
attivamente alla gestione degli Atenei e delle loro strutture inteme. Ne devono
conseguire provvedimenti con riflessi sulla carriera.
L'attuale disciplina che regola i concorsi ha suscitato molte critiche, che si
sono aggiunte a quelle che hanno colpito tutte le normative precedenti. Le
leggi in proposito sono cambiate ripetutamente negli ultimi decenni, ma alla
fine sono risultate sempre inadeguate. Siamo convinti che sia necessario
incrementare i meccanismi di controllo nazionale e internazionale sulla
capacità e sulla preparazione dei docenti, anche perché il finanziamento
pubblico degli Atenei non può essere disgiunto da un controllo rigoroso
sull'impiego delle risorse per i fini stabiliti. Di conseguenza, pur nella
salvaguardia della natura pubblicistica del rapporto che lega i docenti al
sistema universitario, la selezione all'ingresso non è sufficiente: essa deve
essere accompagnata dalla valutazione periodica del rendimento didattico e
scientifico.
Ma c'è un principio che occorre riaffermare con chiarezza: non possiamo
illuderci che disfunzioni e abusi verranno eliminati cambiando semplicemente i
metodi di selezione. Molto è affidato alla probità e alla capacità delle
persone; non c'è ingegneria istituzionale che possa funzionare se manca la tensione
etica. Ma siamo convinti che questo è possibile, perché, nonostante le
deviazioni prima ricordate, il livello dei docenti italiani è e resta elevato.
AUTO
VALUTARSI ED ESSERE VALUTATI. L'autonomia ha certamente un costo, ma questo
costo deve essere inteso come investimento. Se si indulge nel rappresentare le
Università con vuoti stereotipi, come erogatrici di posti di lavoro fìssi e
improduttivi, si compie un imperdonabile errore.
L'Università è pronta a confrontarsi su ogni misura che esalti la programmazione
del sistema e che ordini secondo meccanismi certi il complesso quadro che
l'esercizio dell'autonomia nelle diverse realtà universitario comporta. Le
Università formano infatti un sistema che comprende Atenei grandi e piccoli,
Sedi antiche e recenti, Università statali e non statali: tutte utili e tutte
da valorizzare nel nostro sistema, rispettandone le peculiarità.
Siamo pronti a una verifica delle condizioni di qualità che consentono di
premiare comportamenti virtuosi e disincentivare condotte errate. La Conferenza
dei Rettori ha da tempo richiamato l'attenzione del Governo e delle forze
politiche sul tema della valutazione, sollecitando il comune impegno alla
elaborazione di indici di qualità che consentano di misurare il contributo di
ciascun Ateneo. Tali indici devono essere individuati con il concorso di tutti,
assicurando, nello stesso tempo, la condivisione delle scelte premiali che
esprimono, la capacità di riportare ad unità equilibrate realtà assai
diversificate, la stabilità delle loro scelte e la trasparenza della loro
applicazione.
Gli indici di qualità debbono divenire gli elementi di determinazione delle
regole del gioco: regole condivise e gestite tenendo conto della preziosa
esperienza del Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario.
"Regole", non ci stancheremo mai di ripetere questa parola! Perché è
ancora a norme precise che sarà necessario attenersi per fissare i confini
all'interno dei quali deve potersi svolgere un virtuoso processo competitivo, un
tempo sconosciuto al sistema. Male intenderebbe, però, il concetto di
concorrenza tra le Università chi volesse schiacciarne il significato sul
modello economico che è tipico delle imprese, quello che si misura sulla
produzione di merci, sulla vendita, sul prezzo e sul profitto. La competizione
tra le Università, invece, si gioca sulla qualità. Essa deve mirare alla
creazione di aree di eccellenza; deve saper rispondere alle attese sociali;
deve favorire l'innesco di processi di miglioramento di lungo periodo; non può
negarsi allo sforzo progettuale e all'investimento; deve essere consapevole dei
costi economici che la sua funzione sociale, se vuole essere reale e concreta,
comporta. Parlando di Università, la parola "concorrenza" assume
dunque un valore del tutto speciale, e in questo slittamento di significato sta
tutta la difficoltà, ma anche il fascino, di una nobile sfida di miglioramento
e di progresso.
La valutazione deve riguardare tutte le azioni dell'Università, da quelle
istituzionali a quelle amministrative. Deve essere continua e rappresentare una
sorta di "autoanalisi" responsabile di ciò che abbiamo fatto e che
stiamo facendo; ci sarà poi il giudizio di esterni agli Atenei. Ricordiamo che
si valuta in primo luogo per conoscerei, per responsabilizzare tutti i livelli
della comunità universitaria, per armonizzare le procedure, per offrire
garanzie di trasparenza agli studenti e a tutti coloro che si rivolgono
all'Università.
Proprio parlando di valutazione, c'è qualcosa che, come presidente della CRUI,
tengo particolarmente a sottolineare: la Conferenza dei Rettori, esprimendo la
volontà delle Università, ha dato un contributo fondamentale alla diffusione
della cultura della valutazione nel sistema universitario. Lo ha fatto nella
didattica, con i progetti Campus e CampusOne (quest'ultimo ha già valutato 500
corsi di studio); lo fa fatto nella ricerca, con la pronta adesione alla
proposta del Comitato nazionale di indirizzo per la sua valutazione e con la
pubblicazione di un volume sull'argomento che riteniamo di importanza non
secondaria.
UN
SETTORE SUL QUALE INVESTIRE. Autonomia, responsabilità delle scelte,
valutazione dei risultati, premi o sanzioni: ecco lo schema che il sistema
universitario italiano condivide. Ma questa nuova e diffusa mentalità rischia di
essere frustrata o di risultare improduttiva se lo Stato non decide di
considerare l'Università come un settore di investimento. "La definizione
del livello di investimento in formazione superiore e ricerca è per il nostro
Paese una scelta politica decisiva delle sue sorti nei prossimi anni, del suo
equilibrio economico-sociale, di quello politico-sociale, dei processi di
trasformazione civile, sociale, economica della società italiana": è
scritto nel documento dell'assemblea della Conferenza dei Rettori approvato il
18 aprile 1996. A quel documento ne seguirono altri simili: nel 1998 (se ci
fosse una Maastricht per l'Università l'Italia non entrerebbe in Europa -
dicemmo), nel 1999 e nel 2001. Tutti quei documenti e quei dati rendevano
evidente come per le risorse destinate alla ricerca, per il numero dei
ricercatori, per la spesa dello Stato per studente, per la spesa dello Stato
per laureato, per il rapporto docenti/studenti, l'Italia fosse al livello più
basso nel contesto europeo. Oggi siamo costretti a segnalare un ulteriore
peggioramento.
Alcune cifre lo dimostrano in maniera inequivocabile. Nell'ultimo decennio
tutte le riforme sono state fatte a costo zero, compresa l'ultima sulla
didattica; il numero dei docenti dal 1994 al 2002 è aumentato solo dell'11%, il
personale tecnico - amministrativo è diminuito del 5%; nei prossimi cinque anni
il numero dei docenti diminuirà di 800 unità all'anno, molti di più a partire
dal 2009; il costo del personale nel suo complesso è aumentato per gli Atenei
del 77%, perché gli oneri derivanti dagli incrementi stipendiali decisi a
livello centrale sono sostenuti dai bilanci universitari.
Tale incremento è stato addirittura superiore a quello (74%) dei fondi statali
al sistema universitario nello stesso periodo. Sono dati che fanno prevedere il
collasso certo delle Università.
Sempre i dati dimostrano che, mentre venivano così penalizzate, le Università
non restavano inerti: la percentuale dei finanziamenti privati rispetto a
quelli totali è in costante aumento e il rapporto finanziamento
privato/finanziamento pubblico è oggi 0,4/1 come media nel sistema. I
finanziamenti ottenuti dalle Università al di fuori del fondo di finanziamento
ordinario sono serviti, oltre che alla ricerca, a rendere meno grave la
discrepanza tra l'aumentato numero degli studenti e le strutture messe a loro
disposizione: infatti, il finanziamento statale per l'edilizia universitaria è
stato dal 1990 equivalente a circa 150 euro all'anno per studente.
Quello delle risorse è un capitolo molto delicato, nel quale è facile esporsi
al rischio di apparire partigiani o portatori di interessi particolari. La CRUI
non è ne vuole essere una rappresentanza di interessi: esprime e rappresenta
Istituzioni autonome del Paese.
Se avanziamo richieste di incremento dei fondi per l'Università, lo facciamo
solo per essere messi in grado di lavorare con quella efficacia e quella
dignità che compete a una Istituzione, l'Università, che in ogni Paese è forza
trainante.
In una situazione grave come la congiuntura economica attuale, siamo fortemente
convinti della necessità che anche l'Università debba cooperare nello sforzo di
risanamento dei conti pubblici. Tanto è vero che le Università sono tra le
poche amministrazioni che hanno pienamente rispettato i limiti imposti al
fabbisogno di cassa: ne è conseguito che il Ministero dell'Economia e delle
Finanze ha notevolmente allargato la sperimentazione dell'uscita delle
Università dalla tesoreria unica. Ma questo senso di responsabilità non ci
esime dall'invocare in modo forte e deciso l'incremento delle risorse
finanziarie per l'Università: perché un ottimo modo di risanare è proprio
quello di investire nei settori che producono qualità e innovazione. Noi
facciamo questo.
Ne vogliamo che venga dimenticato come la CRUI si sia fatta promotrice con il
MIUR di iniziative per una più efficiente allocazione delle risorse già
disponibili.
Abbiamo, infatti, convintamente assecondato la misura che ha consentito di
spostare una certa quantità di risorse finanziarie dalla incentivazione del
corpo docente alle borse per la mobilità degli studenti, agli assegni di
ricerca e alle borse di dottorato. Non tuteliamo interessi di parte. E vogliamo
ampliare la nostra sfida nel segno della più efficiente allocazione delle
risorse e della promozione dell'investimento nell'Università.
Ciò che chiediamo al Governo è dunque un atto coraggioso e una vera assunzione
di responsabilità. Siamo alla vigilia della presentazione della Finanziaria e
tutti guardiamo alle misure che il Governo assumerà. Ebbene, la Conferenza dei
Rettori avanza una proposta precisa: il Governo destini intanto alle Università
le risorse che nel corrente anno non sono state spese dalle varie
Amministrazioni. Speriamo così che si possa realizzare il circolo virtuoso di
rendere produttivi per il futuro del Paese impegni finanziari pubblici
risultati sovradimensionati rispetto alle reali possibilità ed esigenze delle
Amministrazioni presso le quali erano stati allocati; e renderli produttivi in
un settore la cui importanza per l'economia e la crescita del Paese è nella
consapevolezza di tutti. Un atto del genere, da parte del Governo, avrebbe
dunque un valore non solo pratico, ma soprattutto morale: e nel mondo della
cultura, la forza dei simboli possiede ancora una grande capacità trainante.
Confidiamo dunque che ci si renda conto della insostenibile situazione
finanziaria degli Atenei e che venga accolta questa proposta. Ma al di là delle
misure di emergenza, è venuto il tempo in cui lo Stato deve mettere finalmente
mano a una riforma organica della finanza universitaria, con un progetto
pluriennale che inizi subito e che adegui in qualche anno le risorse pubbliche
almeno alla media europea: dallo 0,8% ali'1,2% sul PIL. È inoltre ormai
ineludibile che quelle voci di spesa che derivano da costi imposti
dall'Autorità centrale, o comunque non dipendenti dalle scelte delle Università
(ad esempio, gli stipendi), siano sostenute totalmente dallo Stato e non
ascritte ai bilanci universitari. Esiste un metodo sicuro per il monitoraggio
di queste spese: le banche dati sul personale universitario sono
obbligatoriamente aggiornate in tempo reale dagli Atenei.
Siamo pronti e disponibili, come pure abbiamo già fatto, a valutare tutte le
proposte che ci verranno formulate e a concorrere fattivamente perché esse
siano migliorate e rese funzionali. Ma, in tale progetto di ammodernamento
della finanza universitaria, è necessario aver chiaro che su un principio non è
possibile trattare: quello dell'autonomia universitaria. L'autonomia gestionale
è la condizione minima essenziale per dare all'autonomia didattica il suo
significato più autentico. Cancellare le prerogative dell'autonomia significa
cancellare tutte le altre, riportare indietro l'orologio di quindici anni,
rinunciare alla libertà della nostra missione in favore di un controllo
centrale, andare in controtendenza rispetto all'Europa.
IL
PAESE, LA "SUA" UNIVERSITÀ, IL "SUO" FUTURO. Viste
dall'esterno, le Università possono apparire come mondi separati, con logiche
proprie, molto diverse da quelle che caratterizzano le altre Istituzioni e gli
altri ambiti sociali. Ogni volta che ci raffrontiamo con l'esterno avvertiamo
il peso di questa anomalia: alcuni, per questo, ci ammirano; altri ritengono
questa nostra natura addirittura pericolosa e rifiutano il confronto! Così di
volta in volta, nel corso delle diverse fasi storielle, siamo stati visti o
definiti come "comunità consensuali" o come "anarchie
organizzate". È tutto parzialmente vero. La struttura organizzativa delle
Università è caratterizzata da una intrinseca frantumazione, che trova
fondamento nel fatto che i blocchi da cui è costituita sono le discipline e le
aree specialistiche, con le conseguenti attività di ricerca e di insegnamento.
Ma questa frantumazione si è sempre ricomposta e tuttora si ricompone, per il
fatto che l'Università è basata contemporaneamente sul criterio
dell'autogoverno. Ne consegue che la collegialità e il rispetto dei ruoli sono
valori condivisi da tutte le discipline. L'autogoverno, che ci deriva da una
tradizione di democrazia, si è in questi ultimi anni ampliato e arricchito, dal
momento che anche gli studenti, prima, e il personale tecnico e amministrativo,
poi, sono stati chiamati ad essere parte attiva della comunità.
La strada dell'attuazione della nuova fase è impervia. Di una cosa soprattutto
c'è bisogno: che le Università non vengano lasciate sole. È per questo che
chiediamo alla società, alle Istituzioni e al mondo imprenditoriale di aiutarci
in questa impresa. Ai lamenti per tutti i mali e per tutti i ritardi
dell'Università debbono sostituirsi proposte e richieste da parte di questi
interlocutori.
Per parte nostra, mentre guardiamo fuori, faremo sì che non vi sia al nostro
interno separazione tra forma e contenuti, altrimenti l'operazione potrebbe
trasformarsi in un semplice rifacimento di facciata. E non è certo di
maquillage che ha bisogno l'Università. Ogni componente delle comunità
universitario dovrà fare la sua parte, se vogliamo che - parafrasando Eric Hobsbawm
- "ci piaccia il luogo nel quale vivremo"; che ci piaccia, cioè,
l'Università nella quale vivremo e lavoreremo. Ai docenti chiediamo che, oltre
a dedicarsi con il consueto impegno alla ricerca e all'insegnamento, si lascino
alle spalle una parte di quel "radicale individualismo" che li
caratterizza tradizionalmente e che per altro verso è così fertile; agli
studenti chiediamo un confronto quotidiano e di merito per aumentare le loro
opportunità di studiare bene e di avere successo nella vita post-universitaria;
al personale tecnico e amministrativo chiediamo di essere parte attiva in
questo processo. Rispolvero una parola - anzi una figura antropologica che
appare quasi obsoleta - la partecipazione, per indicare una cometa che deve
guidarci in questa difficile fase di cambiamento.
Molto dipende da noi, ne siamo ben consapevoli, dalla forza della tradizione e
dai giusti impulsi al rinnovamento. Ma, nonostante il nostro quotidiano lavoro
di rinnovamento, non possiamo sperare di riuscire da soli a ottenere di essere
finalmente considerati quella risorsa prioritaria che il Paese legittimamente
reclama. La voce isolata dei Rettori e delle Università non è sufficiente. È
direttamente al Paese che chiediamo di aiutarci, perché possiamo garantire al
Paese stesso un futuro nella libertà e nella ricchezza delle idee, quel futuro
che è affidato alle competenze dei giovani che oggi si rivolgono
all'Università, quello indotto dalla ricerca e dall'innovazione. Lo Stato e i
suoi governanti siano lungimiranti: l'Università è un bene pubblico perché ha
erogato ed eroga un servizio pubblico; è un bene pubblico che viene da secoli e
secoli di storia.
La mia relazione è terminata. Ma prima di concluderla vorrei chiedere a tutti
voi di compiere un gesto molto semplice: guardarsi attorno. Ci troviamo in un
ambiente splendido, che risuona ancora delle musiche che lo hanno abitato fino
a ieri. E' come se ci fossimo riuniti nella pancia di un immenso liuto! Un
grande architetto, Renzo Piano, e un grande musicista che ci ha appena lasciato,
Luciano Berio, hanno compiuto questo miracolo. Ma se hanno potuto compierlo -
in Italia, a Roma - è perché la loro creazione affonda le sue radici in una
cultura millenaria: la cultura italiana. Ed è questa cultura, signore e signori
- una cultura in cui da millenni si intrecciano musica e poesia, ingegneria e
architettura, scienza e tecnologia - che noi, oggi, siamo venuti qui a
difendere. Il Paese deve sapere che, se lo Stato non prenderà i provvedimenti
che sono stati indicati sopra, la situazione finanziaria renderà impossibile
alle Università garantire non solo il mantenimento di questa splendida
tradizione, che attorno a voi vedete testimoniata, ma addirittura l'erogazione
di quel fondamentale servizio pubblico, l'istruzione, che pure è nostro compito
erogare a tutti i cittadini. Non ci sarà possibile garantire il diritto dei
giovani alla acquisizione delle competenze professionali per il futuro, a tutti
i cittadini l'innovazione che deriva dalla Ricerca. I Rettori e le Comunità
Accademiche - docenti, studenti, personale tecnico e amministrativo - lo
affermano qui oggi di fronte al Paese.